PREFAZIONE

Due generazioni a confronto -potremmo dire- sul percorso comune della scrittura che comunque si fa poesia. Un’attestazione delle rispettive interiorità unite da un filo che rappresenta sia una continuità di valori che il ritornare su un tempo vissuto in una diversa maniera, si, ma anche nella ricerca dei medesimi ideali: quelli, cioè, che gridano contro le violenze all’ordine naturale delle cose, contro le catene, senza invocazioni superficialmente retoriche, in Erminio Zanenga, salvo l’insistere in un’aderenza al lessico del quotidiano mentre Carmen Zoppi, certo più addentro alle immagini e alle espressioni, condensa nei ritmi e nelle scansioni della maturità riferimenti e riflessioni tradotte in allegorie o sciolte nei simboli grafici più accattivanti. Esistenziali, nella madre e nel figlio, il pessimismo e l’amarezza che il piglio dello Zanenga, forte della parola irruenta e dei contraddittori entusiasmi di ogni giovanissimo, trasforma in lapidarie, sintetiche attestazioni stemperate, invece, negli approdi cromatici e incorporei della Zoppi. Sicuramente difficili, i due modi di riflettersi in componimenti di questo genere hanno in comune soprattutto l’impegno di carattere morale che la tentazione della fantasia non altera e l’angolazione con la quale ognuno dei due autori si rilegge rende, di volta in volta, più pregnante. Ambedue restano dietro le cose: mai sopra di esse, semmai dentro la struggente dimensione piena di chiaroscuri, sovente con scrittura rapida, stenografica, pur quando le metafore sembrano contrattare un abbandono alla forma pur di colpire nel segno. Una poesia -riconosciamolo- che è anche sofferenza e contestualmente un atto d’amore, nella costruzione serrata -lo ripetiamo- che vuole un rapporto vero con chi può recepirla e farla propria. La consapevolezza del silenzio, della precarietà, della fragilità stessa della condizione umana -e dunque il rifiuto di ogni illusione o vanità- emergono nelle sottolineature che all’inizio e al termine della raccolta ambedue gli autori hanno voluto fare. Ma non c’è anche desolazione, in questo ulteriore elemento comune, bensì la consapevole condivisione dell’assunto manzoniano sull’immaginazione dei poeti edificata sull’incertezza, vacillante e faticosa ma aderente alla quotidianità. Potremmo concludere affermando che quest’antologia, fortemente pensata e sentita, è un punto di transito per ambedue, cioè per lo Zanenga e per la Zoppi. Indubbiamente. Ma è anche una opportunità per riconoscersi, per scambiarsi reciproche risonanze, oppure per contrapporsi -e non è un gioco di effetti- in quella sentita intesa che è diversità nell’identità, autonomia nelle scelte di vita comune, andare avanti, insomma, traghettando la propria anima ed i propri convincimenti dal secondo al terzo millennio.

Firenze, 8 agosto 2000

Giulio Panzani